Eduardo, l’uomo dalla valigia di Erminia Pellecchia

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Eduardo, l’uomo dalla valigia di Erminia Pellecchia

Sieti, piccolo borgo medioevale appollaiato sui monti Picentini. Palazzo Giannattasio, il giardino affacciato sui tetti delle dimore gentilizie e sugli orti di delizie  di questo paese dell’altrove, lontano dalle rotte del turismo di massa, l’isola che non c’è se non per chi è capace di volare. È il buen retiro di Eduardo, l’ampio cortile con le vecchie scuderie trasformate in laboratori di ceramica, grafica, scultura, la falegnameria, lo studio-pensatoio, il maestoso portone sigillato agli sguardi esterni, chiuso all’ in(civiltà) del rumore, come Dorfles ha meravigliosamente definito il nostro vivere attuale in balìa dell’edonismo e del consumismo.

Eduardo ti sei rinchiuso in una prigione dorata. Cosa rappresenta per te Sieti?
La memoria di un tempo diverso, un luogo dove ritemprarsi e cancellare  le negatività. È il mio centro di gravità permanente, qui cerco di ritrovare l’equilibrio, la forza di continuare a combattere, di lanciare messaggi in  bottiglia con la speranza che arrivino a qualcuno. La terra è avvelenata, animali e specie sono in estinzione, l’acqua un tesoro sempre più inestimabile. Si sono persi i valori, la morte dell’etica è la morte dell’uomo. Io mi sforzo di mettere qualcosa sul piatto della bilancia: auspico e sollecito un ritorno al passato, al primitivo. Uso il fuoco che è vita, speranza, la costruzione del nuovo.

La memoria per te è anche la famiglia. Hai scelto come nome d’arte il cognome di tuo nonno materno.
Non l’ho mai conosciuto. È morto pochi giorni prima della mia nascita, un fatto che in età adulta mi ha molto turbato. Come si fa a festeggiare quando qualcuno che ami non c’è più? Come si può sopravvivere al dolore se non ritrovando nei tratti appena accennati di un neonato quelli del volto caro che è scomparso? Vita e morte diventano una sola cosa, la fine e l’inizio, una dimensione senza più tempo né spazio, passato e futuro oltre i confini, le barriere. Eduardo Giannattasio, mio nonno, mi ha trasmesso il testimone di valori da coltivare e tramandare. Era un uomo stupendo, un anarchico, artista e musicista, un pazzo scatenato per la gente comune, un pericolo per la collettività, un forestiero. Ecco, anche io mi sento un estraneo al mondo di fuori che si sta  autodistruggendo  in una accelerazione che mi lascia sgomento.

La pittura, allora, come terapia?
Il colore, direi, più che la pittura. Il colore è gioia, la vita è guasta, ci vuole molto colore in questo periodo attuale che segna un passaggio epocale. Siamo tutti sull’orlo di un precipizio e dobbiamo assolutamente fare un passo indietro per salvarci. Ecco, io vorrei raccontare la vita, ma sono costretto a raccontare la morte. Però lo faccio a modo mio, anche la morte è colorata.

Dici spesso che la pittura è nel tuo DNA.
Sì, è come una bellissima patologia. Ho sempre disegnato, fin da piccolo. A sei anni i miei genitori mi regalarono dei colori ad olio, con un vecchio lenzuolo imbastii una tela e la riempii di colori. È stato il mio primo quadro, lo conservo ancora in camera da letto. L’essenza di trementina – è  ancora vivo olfattivamente il ricordo – mi fece impazzire, era un odore che mi apparteneva, non ne ho potuto più fare a meno, è la mia droga. Stavo nella casa materna di Sieti, all’improvviso ho avuto la percezione del mio futuro: mi sono visto qui, vecchio, immerso nei colori. La mia  prima moglie non ha mai capito questa esigenza, screzi, litigi, poi la separazione. Forse aveva ragione, avevamo due bambini, quando il San Carlo mi ha licenziato (mi sono diplomato in scenografia all’Accademia di Belle Arti di Napoli con Stefanucci) non avevamo neanche i soldi per comprare il latte al più piccolo. Io mi rinchiudevo nello studio, dipingevo come un matto e poi distruggevo la maggior parte delle mie opere. Ripeto, la pittura per me è una malattia. Dipingevo per me, era un fatto puramente privato, non mi interessava il pubblico.

Già. La prima mostra l’hai fatta a 36 anni.
Per caso. Parlavo di mia moglie, lei è francese. Quando le difficoltà economiche si sono accentuate, abbiamo fatto le valige e abbiamo chiesto asilo politico ai suoi genitori  che abitano in un paesino vicino Bordeaux. A un certo punto, avevo messo da parte il mio orgoglio ed avevo provato a vendere i miei quadri con una sorta di porta a porta. Giravo con una cartellina piena di fogli, paesaggi, nudi, nessuno li voleva. Così addio Italia in cerca di tempi migliori. In Francia mi sono adattato a tutti i mestieri, di giorno facevo il lavapiatti, la notte ritrovavo i colori e la voglia di andare avanti. Un giorno ho avuto un’idea, ho preso i miei lavori e li ho esposti nel cortile dell’Università di Angouleme, ho tappezzato la città con manifestini ciclostilati, è stato un successo inaspettato. La sera dell’inaugurazione c’era una folla quasi da stadio, tra il pubblico di curiosi molti artisti. È nato un sodalizio, mi hanno fatto entrare immediatamente nel loro gruppo.  In Francia non c’è rivalità tra gli artisti, ci si confronta, si sperimenta insieme. È stata per me un’ottima scuola, un incoraggiamento, la prova che potevo uscire dal guscio.

Le prime sperimentazioni, i fogli di giornale usati come tela, la commistione tra parola, segno e colore.
Mi sono avvicinato all’informale senza, però, disconoscere il figurativo che ancora oggi considero una mia cifra. Devo essere sincero, tutto è nato per caso. Non avevo soldi per comprare le tele, per la verità neanche pochi spiccioli per acquistare la carta per i bozzetti. Spontaneamente ho usato i fogli di giornale e mi sono reso conto che funzionava. Ho inviato articoli di consenso e foto delle mie performance ad un amico salernitano, il critico Geppino Siano. Lui si è entusiasmato e mi ha realizzato la prima personale al Tempio 2000 di  Salerno.

Sei ritornato, dunque, a casa.
Avevo nostalgia della mia terra, ma come pittore è stata dura. All’inizio ho incontrato molte difficoltà, dovute forse anche al mio carattere schivo.

Oggi, però, sei stimato ed apprezzato.
L’America è stata la chiave della mia rivincita. Ancora una volta la fortuna mi ha aiutato. Frequentavo Nino Mirabella, lui mi ha presentato sua zia che vive a New York, una donnina energica e volitiva di 80 anni e passa. Le regalai un quadro, stavo già sperimentando la tecnica del fuoco e zia Irma si innamorò di quel magma di colori forti, esplosivi. La figlia mi convinse ad esporre negli States, ho di nuovo fatto le valige, mi sono detto “ricomincio da tre”. Ora ho un agente, le gallerie americane mi chiamano, alla fine mi hanno scoperto anche gli atelier europei e, da qualche tempo, l’Italia. Espongo a Roma, Milano, Firenze, Londra, Berlino, Parigi. Salerno mi acclama? Forse, ma non mi interessa. Ho superato i cinqunant’anni, non ho più paura di niente. Giudizi, pregiudizi? Poco importa. La mia Sieti è una finestra sul mondo.