Elastiche e vibranti, liquide e spaziose, legate – tra l’altro – ad un tessuto visivo di chiara impostazione postinformale, le opere di Eduardo Giannattasio rappresentano uno sguardo diretto sul teatro della quotidianità: campo di lavoro, questo, ripercorso con energico sperimentalismo e gustoso cromatismo atmosferico.
Lavorando nei sentieri dell’incisione a secco – ma strabuzzandone il sillabario – l’artista presenta, ora, in questo spazio ameno e leggero del Perbacco, una serie di lavori il cui procedimento, pur ripercorrendo le linee generali dell’acquatinta e dell’acquaforte, è stato denominato dall’artista acquamarcia. Si tratta di strutture monotipiche di straordinaria fattezza in cui è possibile avvertire la torchiatura della carta e, nel contempo, un ordine discorsivo in cui il fuoco si fa, a mio avviso, pennello totale, apparecchio cromatico volutamente slabbrato e furioso.
Ereditando un gusto primitivistico della pittura in cui, il ritorno alle cose, tratteggia, ancora una volta, il lato oscuro e rivelatore del mondo, Giannattasio, formula un andamento estetico che altera le analisi linguistiche di matrice pollockiana metamorfosandole in abili e veloci estensioni tecniche tese a rinnovare il rapporto tra l’opera e il suo ordine interno grazie a vere e proprie performance rivelatrici.
Quelle di Giannattasio sono, difatti, ricerche visive in cui il fuoco – medium privilegiato – enuncia le regole d’un ragionamento fortemente legato al tempo e alla temporalità, allo spazio, ai primi materiali di un’idea che si mette in movimento attraverso controllati comportamenti gestuali.
Piromane della pittura, Giannattasio tende, fondamentalmente, a controllare il fuoco per farlo diventare pennello e colore assieme; strumento assoluto (e assolutistico) che determina le ragioni (e le regioni) della creatività.
Azionando un programma che ritorna alle origini dell’uomo e al suo rapporto con riti e miti della vita interiore, l’artista dà origine ad un corpo a corpo con il fuoco attraverso liturgie segrete e movimenti fisiologici (e morfologici) che trovano, nella danza e nel movimento, il primo aspetto del proprio lavoro. I suoi quadri, come le plastiche lavorate con la fiamma ossidrica, sono il risultato di una tecnica [perfezionata nel proprio studio, luogo intimo nel quale «si possono ancora incontrare, in qualche sfumatura, in qualche pennellata, elementi di un’arte rivoluzionaria» (Majakovskij)] che celebra una fonte di luce e di calore: quella del fuoco appunto, elemento al quale Giannattasio si affida per il compimento, la concretizzazione e la precisazione postproduttiva della propria manovra artistica.
Spruzzando il basamento con pigmenti ammorbiditi in alcool etilico, l’artista genera degli sgocciolamenti e delle combinazioni tra il segno del pennello e la screziatura cromatica per storcere, poi, la prima trama del discorso con un incendio totemico – metafora di sentimenti, passioni, desideri incontrollabili – che riarde la superficie modificandone sensibilmente gli statuti interni. L’azione delle fiamme, difatti, rivela, a processo concluso, un piacevole complesso figurativo in cui forme acefale e corpi altamente eroicizzati (ridotti a larva primordiale e a ricciolo sensuale), sembrano fuoriuscire da un riarso magma cromatico che dona splendore e agilità all’intera composizione.
In questo modo, le figure che emergono dai suoi incendi pittorici sembrano derivare dal subconscio stesso dell’artista, da ciò che è sostanza travolgente, poiché esse sono create – o quantomeno rimodellate – dalle qualità (metamorfosiche), magiche e mistiche, del fuoco; teatro oscuro in cui l’artista genera figure su lingue di calore per donare ciò che resta d’un armonioso movimento estetico e, naturalmente, mentale.